Borgo Montello era la discarica dei Casalesi nel basso Lazio. A raccontare apertamente per primo quanto fosse presente la camorra nell’area di Latina e a due passi dalla parrocchia di don Cesare Boschin, ucciso nel marzo del 1995, fu il pentito Carmine Schiavone (deceduto nel 2015). Nel testo della Commissione parlamentare d’inchiesta sui rifiuti che chiede di riaprire le indagini sul delitto del prete anticamorra è scritto che già nel 1996 il collaboratore di giustizia dichiarò che il clan aveva utilizzato il sito di Borgo Montello tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 per sversare illecitamente rifiuti pericolosi.
Il 13 marzo di quell’anno – prosegue il dossier – la polizia giudiziaria di Latina interrogò l’ex boss per saperne di più. “Proprio a Latina – disse Schiavone – il mio gruppo ha realizzato un investimento di notevole entità in un’azienda agricola (ora dismessa, ndr) a Borgo Montello, costata alle casse del clan circa tre miliardi (di vecchie lire, ndr). La camorra prendeva una percentuale sui rifiuti smaltiti ed in quella struttura si occultavano bidoni di rifiuti tossici o nocivi per ognuno dei quali il nostro uomo prendeva 500 mila lire”. C’è di più: “l’investimento del clan nell’area nord della provincia di Latina – aggiunge la relazione parlamentare – è stato considerevole. Oltre alla cifra di tre miliardi di lire indicata da Schiavone come investimento nei terreni e nelle opere nell’area di Borgo Montello il cartello dei Casalesi avrebbe mantenuto una struttura militare notevole, con un costo di circa 100 milioni di lire al mese, pari a 1,2 miliardi di lire all’anno”. Eppure, lascia capire la Commissione, non pare che le rivelazioni del pentito siano state messe in relazione con le proteste contro la discarica lanciate del sacerdote e poi con la sua misteriosa fine violenta. E ancora, è scritto che l’uomo inviato a Latina della criminalità organizzata era “residente a Borgo Montello” e – prosegue la relazione – non è “mai stato interessato dalle indagini, pur essendo già all’epoca un soggetto molto conosciuto nella zona ed essendo nota alla polizia giudiziaria la sua detenzione di diverse armi da fuoco”. Nulla è accaduto neanche dopo le dichiarazioni di Carmine Schiavone davanti a quelle stesse forze di polizia delegate alle indagini sull’omicidio di don Boschin.
La conclusione: “sarebbe in ogni caso auspicabile riconsiderare quelle indagini, chiuse dall’autorità giudiziaria, per tentare di ricostruire almeno il contesto, ascoltando anche i tanti collaboratori di giustizia che hanno già illustrato fatti relativi al sud del Lazio”.
3 Gennaio 2018