In occasione del primo discorso del presidente Trump sullo stato dell’Unione, Formiche.net ha raccolto le osservazioni di Marina Ottaway, autorevole esperta di Medioriente e Africa nonché Middle East Fellow del Wilson Center di Washington DC.
Ottaway, a poche ore dal discorso sullo stato dell’Unione, quali sono le sue considerazioni sulla politica estera del presidente Trump?
È una politica estera espressa attraverso la narrazione dei suoi successi dell’ultimo anno. Non è un mistero che a Trump piaccia parlare di se stesso e delle sue vittorie. Per quanto riguarda il Medioriente ritengo che il dato più importante sia senza dubbio il riferimento al trasferimento dell’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Ritengo che meno importanza sia attribuita ai problemi della Siria e dell’Iraq, rispetto ai quali è assai più complicato parlare di una vittoria americana in un contesto estremamente delicato.
Tra i temi più importanti del primo anno alla Casa Bianca spicca la sostanziale inversione di rotta nelle relazioni con l’Iran. Trump non ha perso occasione per puntare il dito contro il regime teocratico di Teheran. Quali sono le ragioni del cambiamento?
Le ragioni sono varie e toccano differenti piani di valutazione. Prima di tutto, esiste senza dubbio un fattore personale, legato al complesso che questo presidente ha nei confronti del suo predecessore. Da un punto di vista di politica estera ritengo, tra l’altro, che sia ancora presto per parlare di una vera e propria inversione di rotta. Questo perché Donald Trump è circondato da persone che considero non ancora pronte a un passo così importante. Nonostante i proclami del presidente sull’abrogazione dell’accordo sul nucleare e le invettive contro il regime, sappiamo che da un punto di vista concreto poco o nulla è stato fatto. Questo non vuol dire che la situazione non sia preoccupante: credo che dal punto di vista degli Stati Uniti sia ben chiara l’idea che l’Iran stia vincendo praticamente tutte le battaglie nella regione. Basti pensare all’influenza in Iraq, assai più effettiva di quella statunitense, come anche in Siria e nei Paesi del Golfo. Si tratta di una presenza sempre più imponente che arriva fino all’Afghanistan. Non possiamo negare che ormai da tempo Teheran abbia giocato benissimo le proprie carte, con una politica coerente e lungimirante. Anche per questo motivo gli Stati Uniti non sono nelle condizioni di fare molto in termini politici. Al contrario, la superiorità militare degli USA è incommensurabile.
Cosa possiamo allora aspettarci per i prossimi anni nelle relazioni con Teheran?
Sono convinta che l’Iran sia portato ad esercitare un ruolo sempre più significativo negli equilibri regionali. La politica di influenza esercitata praticamente in tutti i Paesi limitrofi ha certamente una chiave di lettura difensiva ma anche un profilo offensivo ben visibile. Non possiamo dimenticare le particolarità di questo Paese rispetto al resto della regione: unico paese sciita circondato da regimi sunniti, unico paese persiano in un mondo arabo. Questo comporta anche un senso di vulnerabilità e costante attenzione. Con riferimento alle relazioni con gli Stati Uniti, non vedo sinceramente grandi cambiamenti nel corso della storia. Anzi, direi che l’Iran si sia dimostrato aperto verso gli USA sin dai tempi della famosa lettera del 2003 alla quale l’amministrazione Bush non ha mai dato risposta. Ci sono sempre stati tentativi di apertura da parte iraniana. Piuttosto, direi che siano gli Stati Uniti a non avere una posizione precisa e coerente verso il Paese.
L’attivismo russo nella regione quali conseguenze potrà produrre?
Sono più che convinta che in realtà la Russia non abbia una precisa strategia da seguire. Ritengo che Vladimir Putin non abbia ancora le idee chiare sui suoi obiettivi di lungo termine. Per tornare a Teheran, direi che tra tutti i Paesi menzionati, l’Iran sia l’unico ad avere le idee chiare sul Medioriente. Senza dubbio Mosca cerca una presenza all’interno dell’area, dalla quale è assente sin dalla fine dell’Unione Sovietica. Detto ciò, credo anche che non esistano ulteriori obiettivi da parte russa, se non la necessità di conservare un varco verso il Mediterraneo. Questo vale soprattutto con riferimento alla scelta di lasciare Assad al potere in Siria.
Come cambieranno gli equilibri con Riyad?
Secondo il mio punto di vista Riyad non ha mai avuto una vera politica estera. Voglio dire, solo recentemente abbiamo assistito al protagonismo dell’Arabia Saudita sia a livello regionale che a livello internazionale. Non si può negare che sia l’attore più importante del Golfo, anche perché di gran lunga più grande rispetto ai Paesi vicini. Questo mi porta a dire che Riyad si veda leader nel Golfo, date anche le condizioni disperate dell’Iraq e della Siria, e che stia provando a giocare sull’influenza economica attraverso ingenti finanziamenti dirottati nei corso del tempo a vari Paesi, come ad esempio l’Egitto. Anche per questo è emerso un certo protagonismo – alquanto recente – del Paese. Nonostante le intenzioni, però, non credo che Riyad sia nelle condizioni di imporsi sugli altri. Questo si vede anche nei consessi sovranazionali, come ad esempio il Gulf Cooperation Council, che è una invenzione dell’Arabia Saudita che non ha mai prodotto i risultati sperati. Anche sotto il profilo militare, il Paese continua ad acquistare armamenti ma nessuno è pronto a scommettere che le forze armate abbiano la necessaria expertise per valorizzarle. Al contrario, nonostante gli anni di sanzioni, gli embarghi e le armi obsolete, l’Iran può contare su un comparto militare assai più efficace.
Guardando al Mediterraneo, la priorità strategica che la Libia rappresenta per l’Italia è ugualmente avvertita da Washington?
La Libia non è una priorità per gli Stati Uniti. Credo che Washington consideri la sponda sud del Mediterraneo prima di tutto una priorità europea. La stessa decisione sull’intervento militare del 2011 fu estremamente dura e combattuta per l’amministrazione di Barack Obama. All’epoca mi è capitato di assistere personalmente a riunioni in cui il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca hanno dovuto valutare attentamente i profili relativi alle violazioni dei diritti umani e al tema del post-intervento. Non fu una decisione facile, non fu una decisione convinta.
All’interno della leadership c’è unanimità di vedute sul tema Libia e Mediterraneo?
In questo momento esiste una evidente discrepanza tra i collaboratori del presidente, alcuni dei quali hanno perduto nettamente la propria influenza sulla Casa Bianca. Mi riferisco a Rex Tillerson e dunque al Dipartimento di Stato. Anche per questo non saprei dire quale sia la politica di Foggy Bottom verso la Libia. Sicuramente il Pentagono esprime una leadership più attenta e responsabile. Anche per questo direi che il Segretario James Mattis non voglia andare ad impegolarsi in una questione così spinosa. La mia conclusione, sul punto, è che non c’è nessuno che sia più prudente dei militari americani.
In che senso?
Nel senso che le forze armate statunitensi sono uno dei veri punti di forza di questo Paese. Esprimono con grande accuratezza le strategie e le prospettive di lungo periodo. Anche per questo ritengo che – qualora necessario – valuteranno attentamente l’ipotesi di interventi militari in giro per il mondo. Il problema vero del Pentagono (e in realtà delle forze armate di tutti i Paesi) è che una volta iniziata una guerra i militari non si arrendono fino alla proclamazione delle vittoria. L’abbiamo visto in Vietnam e lo vediamo adesso in Afghanistan. Su una scala molto più ridotta, credo che le due vicende abbiano degli elementi di affinità.
È corretto dire che la politica estera e di sicurezza degli USA sia oggi più che mai espressa dal Pentagono?
Si. Non credo che sia una tendenza completamente nuova in realtà, nel senso che già dall’invasione dell’Iraq e dall’Afghanistan si è stabilito un equilibrio in cui il Pentagono gioca un ruolo chiave non solo in termini esecutivi ma anche in chiave decisionale. Questo vale anche per il Sahel: negli ultimi dieci anni la politica americana verso quell’area è stata fatta molto più dai militari che dal Dipartimento di Stato, che in questo momento quasi non esiste.
È corretto dire che tale influenza sia destinata a crescere anche con Trump e con i tre generali alla Casa Bianca?
Sulla politica estera non tutti i generali hanno lo stesso peso. John Kelly, ad esempio, è molto ascoltato sui temi dell’immigrazione, non su altri. James Mattis ed H.R. McMaster esercitano senza dubbio una grande influenza. Si tratta tra l’altro di una influenza conservatrice, poiché si cerca di preservare per quanto possibile la posizione tradizionale degli Stati Uniti sul Medioriente e negli altri scenari. In parole povere, in questo modo i generali cercano di razionalizzare e filtrare le posizioni di Trump su temi così delicati.
Alla fine di questo primo anno di amministrazione troviamo un Trump più concreto e prudente in politica estera?
Non credo che il presidente abbia un contatto più concreto con la realtà o manifesti più prudenza. Molto semplicemente, direi che la sua verve sia stata smorzata, dovendo fare i conti con situazioni assai delicate. Nonostante i proclami, la politica estera di questa amministrazione sta seguendo il filone degli anni precedenti, il che non sempre è una buona cosa. È giusto osservare, ad esempio, che la politica di Obama in Medioriente sia stata molto incerta e anche caratterizzata da fallimenti. L’ex presidente democratico ha riconosciuto che gli Stati Uniti non possano contrarre il Medioriente a proprio piacimento ma non ha saputo trovare un’alternativa concreta al post-imperialismo. Al contrario, Trump dice e pensa di poter risolvere tutti i problemi della regione ma è bloccato nella stessa assenza di strategie.
Qual è il peso dell’Italia sulla politica estera e di sicurezza americana?
L’Italia può far valere il proprio peso nelle partite in cui riesce a valorizzare al massimo i suoi punti di forza. Questo è accaduto in Iraq ad esempio. Ha partecipato con successo alle operazioni e si è meritata l’apprezzamento sul campo da parte di tutti gli altri Paesi. Da un punto di vista più ampio, credo che Roma debba impegnarsi per esprimere una leadership responsabile e preparata. Solo in questo modo potrà assumere maggiore peso sulla scena internazionale.