Quello che scrive l’Enomist è piuttosto interessante perché, innanzitutto, va inquadrato con gli stringenti fatti di cronaca: per esempio, Trump ha deciso di alzare alcuni dazi sulle importazioni (quelle di celle fotovoltaiche, frigoriferi, acciaio, alluminio) che teoricamente sono un messaggio armato nell’ambito della più volte evocata guerra commerciale contro Pechino, ma in realtà vanno a colpire più che altro nazioni partner, alleati, amici, degli Stati Uniti, minando, appunto, quel sistema di libero scambio che invece Washington dovrebbe proteggere anche come atto offensivo nei confronti della Cina.
E ancora: sul sentimento di avvicinamento ai valori democratici occidentali. Nei prossimi giorni il presidente Xi Jinping riceverà l’incoronazione definitiva, ottenendo un cambiamento costituzionale che gli permetterà di sedere sul trono imperiale di Pechino a vita. E questo passaggio finale verso una “dittatura”, come la chiama l’Economist, è avvenuto nonostante gli allettanti inviti occidentali a partecipare alla divisione del malloppo del mercato.
Ma la cosa più importante su quello che scrive l’Economist riguarda l’allineamento di pianeti attorno alla Cina. Se non fosse per il prestigio della rivista, verrebbe da obiettare che il pensiero di fondo su cui è stato costruito questo numero è stato rubato da un saggio pubblicato due settimane fa da Foreign Affairs (altro prestigioso riferimento sulla politica estera). In quell’occasione furono due pensatori dell’élite democratica americana, due opinion e policy maker, a dire che Washington aveva sbagliato tutto con la Cina, perché allettare Pechino col suono dei soldi derivanti dall’economia globale, non è bastato a spostare la visione cinese su temi come diritti, democrazia, ingerenza dello stato: insomma, non ha occidentalizzato la Cina, anzi, l’ha allontanata.
Peraltro come fa notare un’analisi del think tank italiano Ispi, Pechino sarà la potenza globale del futuro, anche perché sarà in grado di trattare con attori discutibili, che hanno contraddizioni e ambiguità (per esempio gli stati ex sovietici tagliati dalla Nuova Via della Seta, molti amministrati da democrazie di facciata) senza volersi inserire negli affari interni. Una dimensione antitetica rispetto alla dottrina – almeno teorica – di superpotenza occidentale, vedi l’America, dove il suo presidente veniva descritto anche dall’antologia come “Il Capo del mondo Libero”, difensore di libertà, diritti, valori, democrazia.
E ora la domanda: il cambio di approccio si porterà appresso una competizione ancora più serrata, perché l’Occidente – gli Stati Uniti – inizieranno a prendere consapevolezza che il luccichio allettante del mercato non solo non è servito a plasmare la Cina, ma anzi Pechino l’ha sfrutto per diventare più forte, anche giocando laddove il potere occidentale era in contrazione? Intanto, per il momento siamo davanti a una situazione in cui i centri del pensiero sembrano essersi allineati nell’analisi.