1. LA GUERRA FREDDA

CONTESTO STORICO: LA FINE DELLA SECONDA GUERRA MONDIALE

Le due potenze, America e Russia, avevano portato l’Europa alla vittoria sul nazifascismo. L’alleanza tuttavia durò poco. Da una valida collaborazione si sfociò in un conflitto che avrebbe condizionato il pianeta per i successivi 40 anni.
Gli storici hanno dibattuto molto circa l’inizio del conflitto tra Russia e America e sulle ragioni e sulle responsabilità che lo determinarono. A guerra mondiale ancora in corso, l’intenzione dell’occidente era quella di continuare la collaborazione con l’Unione Sovietica: c’era di fatto un riconoscimento della potenza sovietica e una speranza di indurla ad accettare condizionamenti e limitazioni secondo gli interessi o gli intendimenti occidentali.
Inglesi e americani erano particolarmente attivi nell’esercitarsi a prevedere la politica sovietica dopo la conclusione della guerra, ed in particolare gli inglesi, a opera del loro Ministro degli esteri Anthony Eden, prevedevano due possibilità: Mosca poteva, alternativamente:
1. continuare a collaborare in positivo con l’occidente ai fini della stabilizzazione, in modo da concentrarsi sulla ricostruzione interna;

2. sfruttare la disastrosa situazione in cui versava l’Europa occidentale, sostenendo i movimenti di sinistra esistenti,  destabilizzando ancor più la situazione ed imporre la propria influenza.

La prima ipotesi richiedeva un atteggiamento conciliante verso Mosca, fornendole eventualmente anche aiuti economici e consultandola apertamente e liberamente, per far sì che si potesse creare, sempre in Unione Sovietica, una leadership moderata e disponibile verso l’occidente. Stalin appariva agli occhi dell’occidente l’uomo da sostenere ed era considerato un possibile collaborazionista.
Gli USA concordavano con Eden nel ritenere che l’Unione Sovietica avesse ragione di influenzare l’oriente per porsi in una condizione di equilibrio con l’occidente e, sempre secondo gli americani, addirittura si arrivava a concepire uno schema definito dagli storici “dei quattro poliziotti”. Vale a dire, Stati Uniti, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Cina avrebbero potuto garantire la pace e la sicurezza nel mondo, mentre gli altri paesi dovevano essere portati al disarmo. Questa idea americana condizionò fortemente la formazione anche del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e del sistema di voto, come vedremo più avanti.
Alla Conferenza di Yalta, nel febbraio del 1945, si ridisegnò la mappa geopolitica del globo e si decretò la fine della collaborazione, realizzata durante la guerra, e l’inizio del contrasto, che caratterizzò i successivi 40 anni di “guerra fredda”.
Roosevelt, Churchill e Stalin dovettero affrontare questioni fondamentali di geopolitica, ed in particolare, problemi quali: il futuro della Germania; la formula del voto all’ONU; il problema dei confini del governo della Polonia, il ruolo della Francia; la richiesta sovietica sui Dardanelli e sui territori giapponesi; infine la questione sui mandati sulle colonie dei paesi sconfitti.
A Yalta ci fu, in effetti, un do ut des: gli americani assunsero la decisione di riconoscere una sfera di interessi, piuttosto che dare una risposta equilibrata sul futuro del mondo. Inevitabilmente, ci furono scontri. In conclusione Roosevelt, Churchill e Stalin si adoperarono per portare, come si suol dire, “a casa” la maggiore vittoria possibile sul piano geopolitico.
L’America, tra l’altro, riconobbe un’influenza sovietica nell’Europa orientale per un’esigenza di sicurezza, a condizione che non costituisse una minaccia ai propri interessi: tutto ciò in un clima, comunque, di assoluta sfiducia e contrapposizione.
La sperimentazione dell’arma atomica, da parte dell’America, portò l’Unione Sovietica a una corsa contro il tempo per poter allineare la sua potenza nucleare a quella dell’America e fu proprio la disponibilità dell’arma nucleare a far oscillare le relazioni, tra tentativi di compromesso e dure prese di posizione.
Gli storici, almeno alcuni, attribuiscono a Stalin, con il primo discorso programmatico dalla fine del conflitto mondiale nel febbraio del 1946, la volontà di riportare sul piano ideologico i contrasti, quando affermò:
– l’inevitabilità dello scontro tra le due società, tra le società socialiste e quelle capitaliste;
– avvertiva il popolo che la minaccia dell’occidente imponeva sacrifici e l’esigenza di sviluppare industrie pesanti in luogo di quelle relative ai beni di consumo.
Gli americani  definirono il discorso di Stalin “dichiarazione di terza guerra mondiale” mentre Churchill, constatando che si era costituita una cortina di ferro, da Trieste a Stettino nel Baltico, auspicava la fratellanza dei popoli di lingua inglese e l’unità dell’Europa occidentale.
Gli americani iniziarono a marcare la loro leadership in Europa realizzando quella che viene definita la “politica del dollaro” a favore dell’Europa, condizionandola a una reale democrazia dei Paesi sostenuti.
Alla politica del dollaro potevano accedere tutti, formalmente, oriente compreso. La reazione sovietica fu pesante, determinata a impedire, in quell’area, la penetrazione americana. Nasce il piano Marshall, con le sue caratterizzazioni, e che trova ispirazione nella dottrina di Truman.
La politica americana, da semplice reazione alle iniziative sovietiche, doveva diventare con il piano Marshall politica attiva, una politica globale e di resistenza all’espansionismo sovietico.
Iniziò, da parte degli americani, una forte azione di propaganda che, in sintesi, invitava i Paesi a scegliere tra due espressioni politico-sociali alternative:
– una fondata sulle libere istituzioni, rappresentative della volontà della maggioranza
popolare;
– l’altra fondata su un’autorità fortemente centralizzata, che regolava la vita e
l’economia del Paese secondo interessi strategici e ideologici, che potevano anche
non corrispondere ai desideri della maggioranza popolare.
L’aiuto economico e finanziario del piano Marshall veniva a dipendere dalla scelta dei Paesi di darsi una fisionomia cosiddetta “democratica” e cioè espressione della volontà della maggioranza popolare.
Il piano Marshall aveva il vantaggio di essere gestito solo dagli americani e la destinazione degli aiuti era sotto il loro stretto controllo. Infatti, i fondi del piano Marshall dovevano essere spesi negli USA, dando quindi un forte stimolo all’economia americana in fase di depressione.
La possibilità di un progresso economico, nuove tecnologie e nuove forme di vita, creò la base del consenso, non solo dei governi, ma anche delle forze sociali, di sindacati e partiti politici.
Si crearono stretti legami bipolari tra gli stati europei e l’America, che ostacolarono e condizionarono anche la creazione dell’Unione Europea. Il Piano Marshall, in sostanza, aggravò i rapporti con l’Unione Sovietica e favorì quel clima definito di “guerra fredda”.
L’America sfidò l’Unione Sovietica sul piano in cui essa era più debole, instaurando una competizione tra i due sistemi economici e ponendo l’URSS di fronte a una difficile scelta: accettare l’aiuto economico e aprire l’oriente all’influenza occidentale oppure rifiutare e far rifiutare anche gli stati sotto la sua influenza.
Il piano Marshall non escludeva, come si è accennato, a priori i Paesi dell’est; ma la loro partecipazione risultava impossibile per i pesanti condizionamenti posti: l’abbandono dell’economia di stato e dell’influenza sovietica.  Aderirono al piano Marshall solo 16 paesi occidentali.
L’Unione Sovietica reagì, quindi, rifiutando l’aiuto economico e costituendo nel 1947 il Cominform, organismo volto allo scambio di informazioni che riuniva tutti i partiti comunisti orientali e occidentali, e attraverso il quale rafforzare la propria influenza sulle loro decisioni politiche.

L’ONU

In questo contesto, nell’ottobre del 1945, nasce l’ONU,  con lo scopo di conseguire la cooperazione internazionale in ambito di sviluppo economico, progresso socio-culturale, diritti umani e sicurezza internazionale. Dove per sicurezza internazionale si intende  il mantenimento della pace mondiale, anche attraverso misure di prevenzione e repressione.
L’ONU nasce, con sede a New York, da una conferenza di 50 paesi. Oggi ne conta oltre 190.
L’organizzazione delle Nazioni Unite prese il posto della Società delle Nazioni, un’organizzazione similare, posta in essere nel 1919 e che durò fino al 1946.
Nel giugno del 1945, a San Francisco, ebbe luogo la conferenza internazionale delle Nazioni Unite, ed il successivo 24 ottobre dai 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e dalla maggioranza degli altri 46 firmatari ne venne ratificato lo Statuto.
Il Consiglio  di Sicurezza , che ha i maggiori poteri, è costituito da 15 stati membri, di cui 5 sono “membri permanenti”, mentre i restanti 10 vengono eletti ogni 2 anni.
I 5 Stati usciti vincitori dalla seconda guerra mondiale – Cina, Francia, Unione Sovietica, Gran Bretagna e Stati Uniti – si autodefiniscono “membri permanenti” del Consiglio di Sicurezza e, come tali, hanno il diritto di veto: possono bloccare qualsiasi decisione a loro sgradita e fare in modo che non venga discussa durante il riunirsi dell’Assemblea Generale, presieduta da tutti gli Stati membri.
La prima Assemblea Generale, con la presenza dei 51 stati, si tenne il 10 gennaio 1946 a Londra.
Al Consiglio di Sicurezza viene conferita, dall’Art. 24 dello Statuto delle Nazioni Unite, la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e, nell’adempimento dei suoi compiti, agisce in nome delle Nazioni Unite.
La Presidenza del Consiglio è detenuta, a rotazione mensile, secondo l’ordine alfabetico degli altri stati.
Le decisioni prese dal Consiglio di Sicurezza prendono il nome di “risoluzioni”.
L’Art. 52 della Carta stabilisce che il Consiglio può usare la forza contro uno Stato che è colpevole di aggressione o di violazione della pace.
L’eventuale azione militare, nei confronti del Paese colpevole, è riconosciuta come un’azione di polizia internazionale – sotto la supervisione del Consiglio di Sicurezza – e le Forze Armate impiegate, anche conosciute come “Caschi Blu”, provengono tutte dagli Stati membri.

LA FORMAZIONE NATO

La formazione NATO nasce nel 1949, con il Patto Atlantico siglato a Washington. La misura fondamentale del trattato viene enunciata dall’Art. 5 che stabilisce:
“Le parti concordano che un attacco armato contro una di esse, in Europa o in America settentrionale, deve essere considerato un attacco contro tutte e, di conseguenza, concordano che, se tale attacco armato avviene, ognuna di esse in esercizio del diritto di autodifesa individuale o collettiva, riconosciuto dall’Art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite assisterà la parte o le parti attaccate, prendendo immediatamente, individualmente o di concerto con le altre parti, tutte le azioni che ritiene necessarie, incluso l’uso della forza armata, per ripristinare e mantenere la sicurezza nell’area”.
Sul piano prettamente politico,  il disposto era da intendersi  come misura di contrapposizione all’Unione Sovietica.
Le trattative si svolsero tra i firmatari del trattato di Bruxelles – Regno Unito, Francia, Benelux – con gli Stati Uniti, Canada, Norvegia, Danimarca, Islanda, Portogallo e Italia.
L’Unione Sovietica, seguita dalle altre repubbliche popolari, reagì affermando che il patto era:
– di natura prettamente aggressiva e indirizzato contro l’Unione Sovietica;
– in contraddizione con lo Statuto delle Nazioni Unite;
– in contrasto con i trattati di amicizia anglo-russe e franco-russe;
– non rispettava gli altri accordi di Yalta.
Gli alleati replicarono affermando piuttosto la natura difensiva del patto della NATO, diretto unicamente contro una qualunque aggressione.
Il trattato pone a premessa i principi sanciti dalla Carta Costituzionale delle Nazioni Unite: si istituiva, infatti, un sistema di sicurezza difensivo collettivo, chiamato a operare in via sussidiaria rispetto a quella dell’ONU, al quale  veniva riconosciuto il ruolo di principale responsabile per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
L’Art. 5 del Trattato istitutivo della NATO, a conferma di quanto sopra detto, contiene un esplicito richiamo all’Art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, ed in conformità ai suoi dettami, prescrive:
– il limite e il diritto dell’autodifesa collettiva e individuale dei suoi membri;
– che, qualunque misura intrapresa nell’esercizio di tale diritto, vada immediatamente portata a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e debba altresì cessare allorché quest’ultimo abbia preso le misure necessarie per il ristabilimento della pace.
È  qui che ritroviamo, infatti,  la capacità di operare della NATO, almeno inizialmente, anche al di fuori del mandato specifico dell’ONU.
Il patto, quindi, venne firmato il 4 aprile ed entrò in vigore il 24 agosto del 1949.
L’obiettivo della NATO, in realtà, era quello di predisporre un meccanismo che permettesse di operare anche al di fuori della Carta Costituzionale, nel caso di mancata ed efficace azione dell’ONU dovuta al voto di veto (in particolare della Russia).
Gli scopi della NATO vanno anche oltre gli interessi di difesa collettiva, in quanto  prendono in considerazione, per il raggiungimento degli obiettivi, la stabilità politica e il benessere collettivo. Il trattato quindi andava oltre quello che poteva essere considerato un accordo meramente di carattere militare.
La NATO, con l’Art. 9 del trattato, istituiva il Consiglio Atlantico del nord (NAC nell’acronimo inglese), cui spettava, tra l’altro, l’approvazione dell’atto più significativo, il cosiddetto “concetto strategico dell’alleanza”: un complesso di regole che descrivono le modalità operative dell’intervento militare in risposta ad attacchi provenienti dall’esterno.
Il primo di tali atti, approvato nel 1949, gettò così quelle linee guida che rimasero sostanzialmente immutate nel corso dei decenni, tenendo ferma la caratterizzazione dell’alleanza come alleanza militare e puramente difensiva e tesa a garantire la sicurezza dei suoi membri rispetto all’eventualità di un attacco armato.
Il primo concetto strategico della NATO, in particolare, le conferì quella natura di alleanza meramente militare e difensiva, che avrebbe ristretto le attività della NATO tanto sotto il profilo operativo (indicando come le attività dell’organizzazione dovessero limitarsi alle sole ipotesi di legittima difesa),  quanto da un punto di vista meramente geografico (limitando l’area di applicazione del meccanismo di difesa collettiva al territorio degli stati membri).
Nel 1966 Charles De Gaulle decise di ritirare la Francia dal Comando Militare NATO per poter perseguire un proprio programma di difesa nucleare autonomo.
Questo fatto accelerò il trasloco del quartier generale NATO da Parigi a Bruxelles, che avvenne il 16 ottobre del 1967. Mentre il quartier generale politico si trova a Bruxelles, il quartier generale militare SHAPE, ovvero Supreme Headquarters Allied Power Europe, si trova più a sud, nella città di Mons.
Vediamo ora per sommi capi la struttura della NATO:
– il Consiglio del Nord Atlantico (NAC), la struttura politica della NATO. È costituito dai rappresentanti permanenti dei Paesi aderenti e viene integrato con i Ministri degli Esteri e della Difesa e dei Capi di Stato e di Governo, quando debbono essere prese decisioni importanti;
– il Segretario Generale. Presiede il Consiglio e lo rappresenta a livello
internazionale;
– l’Assemblea Parlamentare. È costituita dai legislatori dei paesi membri: è una
struttura parallela ma staccata dalla NATO ed è un organo politico di discussione di
difesa e di sicurezza;
– il Comitato Militare. È responsabile della conduzione degli affari militari dell’alleanza ed opera sotto la guida del Consiglio: quando ritenuto necessario, il Comitato viene  integrato dai Capi di Stato Maggiore della Difesa dei Paesi membri. Il Presidente del Comitato dirige le operazioni militari insieme a due Comandi strategici – prima del 2003 tali Comandi strategici erano il Comando Supremo Alleato Europeo ed il Comando Supremo Alleato Atlantico – che sono il Comando delle Operazioni Alleate e il Comando dell’Addestramento Alleato: il primo è noto come SHAPE e ha sede a Casteau (cittadina belga vicino a Mons), il secondo, invece, è di stanza in Virginia.

Dopo aver visto a grandi linee le due strutture, quella politica e quella militare della NATO, ritorniamo brevemente sul Consiglio che, come abbiamo già detto, è l’organo che promulga gli atti politici fondamentali per la vita della NATO e sviluppa le strategie dell’alleanza. Il concetto strategico, nel clima teso dell’immediato dopoguerra, risultava imperniato sull’utilizzazione dell’armamento nucleare, in risposta a un eventuale attacco sovietico, che diede vita:
– nel 1957, ad una strategia, cosiddetta “ritorsione massiccia” che prevedeva, nel
caso di attacco nucleare,  un immediato e massiccio uso di ordigni  nucleari;
– nel 1967, alla più longeva delle dottrine strategiche della NATO, quella della cosiddetta risposta flessibile che – sulla base della  consapevolezza che un conflitto nucleare avrebbe comportato una “mutua  distruzione assicurata” – prospettava un utilizzo limitato dell’armamento nucleare, in relazione alle modalità e all’entità dell’attacco.
Si consideri, comunque, che queste strategie non erano ovviamente di conoscenza pubblica ma erano coperte da segreto.

IL PATTO DI VARSAVIA

Il Patto di Varsavia o Trattato di Varsavia, voluto da Nikita Krusciov che ne elaborò la dottrina, fu un’alleanza militare tra i paesi del blocco sovietico, intesa a organizzarsi contro l’avversaria Alleanza Atlantica della NATO.
Era un’alleanza militare tra i paesi socialisti dell’Europa orientale, sottoscritta nel 1955 nella capitale polacca, in conseguenza al riarmo e all’ammissione della Germania occidentale nell’organizzazione del Trattato del Nord Atlantico.
Il Trattato, definito informalmente “trattato di amicizia, cooperazione e mutua assistenza”, venne firmato a Varsavia il 14 maggio del 1955 da Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Ungheria, Polonia, Romania e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). L’URSS mantenne sempre un controllo serrato sui paesi alleati. Nel 1962 l’Albania ruppe le relazioni diplomatiche con Mosca per divergenze ideologiche e nel 1968 uscì dal Patto di Varsavia.
Gli organi principali dell’alleanza erano il Comitato consultivo politico, e il Comando unificato delle forze armate, che aveva autorità diretta sui contingenti messi a disposizione dagli stati membri. Per statuto, il comandante supremo doveva essere un ufficiale sovietico.
A differenza della NATO, il Patto di Varsavia ebbe al suo interno aspri conflitti. Ci furono tra gli stati membri tentativi di abbandono e di fuoriuscita dal Trattato. Si pensi alla Rivoluzione Ungherese del 1956, schiacciata dall’Armata Rossa con la forza in due settimane, e alla Primavera di Praga del 1968.
Fu di quegli anni la dottrina Breznev, che può essere così sintetizzata: “Quando forze ostili al socialismo cercano di deviare lo sviluppo dei paesi so cialisti verso il capitalismo, questo diventa un problema, non solo della nazione interessata, ma un problema comune di tutti gli stati socialisti”.
La dottrina di Breznev ebbe fine con la dottrina di Mikhail Gorbaciov, che sanciva la libertà di scelta delle nazioni dell’ Europa dell’est.
Fu chiaro che l’Unione Sovietica non avrebbe bloccato alcun tentativo di indipendenza e che quindi non avrebbe usato l’intervento armato per controllare le nazioni del Patto di Varsavia. Si avviarono, di conseguenza, tutta una serie di rapidi cambiamenti socio- politici.
Nell’ottobre del 1990 la Germania dell’est venne sciolta e i suoi territori annessi alla Repubblica Federale, sancendo così la sua fuoriuscita dal Patto e anche dal COMECON.
Il Patto di Varsavia costituiva il corrispondente militare del COMECON, Organizzazione Economica degli Stati Socialisti, e, se vogliamo, anche la controparte della CEE, Comunità Economica Europea di cui parleremo dopo.

IL COMECON

Il COMECON nasce nel 1949 con la Carta del Consiglio di Mutua Assistenza Economica.
I paesi aderenti al COMECON, oltre ovviamente all’Unione Sovietica, furono Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria. Il desiderio di Stalin era quello di rinforzare la dominazione sovietica sugli stati minori dell’Europa centrale e di indebolire l’autonomia di alcuni stati che avevano espresso interesse per il piano Marshall.
Il COMECON funzionò per 40 anni come cornice per la cooperazione tra le economie pianificate dell’Unione Sovietica e quelle degli alleati dell’Europa centrale e orientale. In seguito, si aggiunse anche la cooperazione degli alleati dell’URSS nel Terzo Mondo.
Il COMECON si fonda fino agli anni ‘60 sul termine di “cooperazione”, che era il termine ufficiale utilizzato per descriverne le attività, sostituito dopo qualche anno dal termine di “integrazione”, cioè “rendere uguali le differenze nella relativa scarsità di merci e servizi tra gli stati, attraverso l’eliminazione delle barriere al commercio e alle altre forme di interazione”.
La salita al potere di Gorbaciov aumentò l’influenza sovietica nelle attività del COMECON e portò a tentativi di dare all’organizzazione un’autorità sovranazionale. Il programma fu composto per migliorare la cooperazione attraverso lo sviluppo di una base scientifica e tecnica più efficiente e più interconnessa.
Verso la fine degli anni ‘50 furono invitati altri stati governati dai comunisti – Repubblica Popolare Cinese, Corea del Nord, Mongolia, Vietnam e Jugoslavia – a partecipare come osservatori nelle riunioni del COMECON.
La Mongolia e il Vietnam divennero membri in seguito, mentre la Cina smise di partecipare alle sessioni dopo il 1961. La stessa Jugoslavia negoziò una specie di status associato nell’organizzazione, specificato nell’accordo del 1964 con il COMECON.
Alla fine degli anni ’80 c’erano dieci membri: l’Unione Sovietica, sei paesi dell’Europa orientale e tre membri extraregionali.
La geografia non univa più però i membri dell’organizzazione. C’erano grandi variazioni a livello economico e di sviluppo nei vari paesi del COMECON, il che favoriva la nascita di interessi differenti fra i diversi stati membri. Ad unirli erano piuttosto fattori ideologici e politici: l’ideologia marxista e l’approccio alla proprietà e al commercio.
Il COMECON, comunque, va detto che fornì un meccanismo attraverso il quale l’Unione Sovietica poteva aiutare economicamente i più stretti alleati politici e militari. I membri dell’Europa orientale del COMECON erano anche, infatti, tutti alleati militari dell’URSS con il Patto di Varsavia.

LA COMUNITA’ ECONOMICA EUROPEA (CEE)

Attraverso il piano Marshall, i paesi dell’Europa occidentale iniziarono un programma di ricostruzione che, pur nel contesto di dipendenza assoluta dall’America, posero le basi di una cooperazione tra singoli stati, avviando di conseguenza una strategia di unificazione politica.
L’intenzione dei tre protagonisti – Schuman, Ministro degli esteri francese, De Gasperi per l’Italia e Adenauer per la Germania – era quello di far assumere all’Europa occidentale un ruolo attivo, con una propria vita politica, quella della cosiddetta Comunità europea occidentale.
Furono ideate e sviluppate la Comunità Europea di Difesa (CED), la Comunità Politica Europea (CPE), la Comunità Economica Europea (CEE), la Comunità Europea per l’Energia Atomica (EURATOM), la Comunità Europea per il Carbone e l’Acciaio (CECA).
Con la CEE nasce il mercato comune europeo, il MEC, termine che si userà soprattutto in Italia per identificare una politica europea.
I dati più rilevanti vengono riportati di seguito.
Nel 1951, con la Conferenza di Parigi, nasce la CECA.
Nel 1958, con il Trattato di Roma, nascono la CEE e l’EURATOM e i firmatari sono: Italia, Germania dell’ovest, Francia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi.
Nel 1956,il Regno Unito propone che il Mercato Comune Europeo fosse esteso in una più ampia area di libertà di mercato.
Nel 1958, la Francia ostacolò l’allargamento e così il Regno Unito, insieme alla Svezia, si fecero promotori dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA), che nel 1960 accolse Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo e Svizzera.
Nel 1973, con l’ingresso del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca nella CEE, si aprirono una serie di accordi che diedero vita a uno Spazio Economico Europeo (SEE).
Nel 1995 nella SEE resteranno solo i 4 paesi che non sono entrati nell’Unione Europea.
Come vediamo da questa rapida carrellata, non si parlerà per decenni di Comunità Europea di Difesa e di Comunità Politica Europea.
Nel febbraio del 1992, con il Trattato di Maastricht, si avrà, finalmente, il passaggio dalla Comunità Economica Europea all’Unione Europea.
L’UE costituisce il primo dei tre pilastri della Comunità  Economica Europea: la Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC) e di Giustizia e Affari Interni (GAI), saranno la successiva logica conseguenza.
In sintesi, si può dire che col pieno sostegno economico e finanziario dell’America, attraverso il piano Marshall, l’Europa occidentale può sviluppare una propria politica economica, ma non un programma integrato e coerente di sicurezza. Molti osservatori attribuiscono la mancanza di una politica unitaria di sicurezza a divergenze interne dei paesi occidentali, piuttosto che ad ingerenze degli Stati Uniti. Nel discorso c’è un labile confine, se si pensa alla concezione della NATO e al ruolo dell’America, che al di fuori dell’alleanza, trattava a volte segretamente accordi bipolari con alcuni paesi occidentali.

LA CONFERENZA SULLA SICUREZZA E LA COOPERAZIONE EUROPEA

L’origine della CSCE va ricercata nel contesto della guerra fredda e nella divisione dell’Europa in due blocchi contrapposti e ostili.
Per dovere di cronaca va detto che negli anni ’50 anche l’Unione Sovietica lanciò l’idea di una sicurezza collettiva europea, che fallì per le note diffidenze reciproche:
– l’Unione Sovietica coglieva tutte le opportunità di dialogo con l’occidente per legittimare l’ordinamento territoriale del dopoguerra e nel tentativo di sviluppare relazioni economiche, anche se condizionate, tra i due blocchi;
– gli stati occidentali, invece, si mostrarono più attivi nel fondere la sicurezza con la definizione dei diritti dell’uomo e dei diritti fondamentali degli stati.
La politica di distensione manifestatasi negli anni settanta contribuì a dare slancio all’idea di una conferenza europea sulle principali questioni concernenti est-ovest. Questa politica fu opera di un gruppo di Stati neutrali e non vincolati (N+N), tra i quali alla Svizzera va ascritto un merito particolare, che assunsero un importante ruolo di mediazione tra i blocchi.
Le prime consultazioni  su un possibile progetto di conferenza  ebbero luogo nel 1972 e nel 1973 a Dipoli, nei pressi di Helsinki, e proseguirono a Ginevra concludendosi nel ’75 con la firma dell’atto finale di Helsinki.
I temi dei negoziati attraverso i quali si giunse all’atto finale di Helsinki furono suddivisi in tre capitoli:
1) questioni sulla sicurezza in Europa;
2) cooperazione in campo economico, scientifico, tecnico e ambientale;
3) cooperazione nel settore umanitario.
L’atto finale è costituito dalla dichiarazione sui principi che reggono le relazioni tra gli stati ratificanti il cosiddetto “Decalogo di Helsinki”.
Dieci sono i punti del cosiddetto “Decalogo di Helsinki”.
1. Uguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità;
2. Non ricorso alla minaccia o all’uso della forza;
3. Inviolabilità delle frontiere;
4. Integrità territoriale degli stati;
5. Composizione pacifica delle controversie;
6. Non intervento negli affari interni;
7. Rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, inclusa la   libertà di pensiero, coscienza, religione o credo;
8. Eguaglianza dei diritti e autodeterminazione dei popoli;
9. Cooperazione tra gli stati;
10. Esecuzione in buona fede degli obblighi di diritto internazionale.
A causa degli eventi negativi e del peggioramento dei rapporti est-ovest (ne indichiamo alcuni: l’attacco sovietico in Afghanistan, la legge marziale in Polonia, l’abbattimento di un aereo sudamericano da parte di un caccia sovietico etc.), le riunioni del 1977 e del 1978 a Belgrado, e del 1980 e del 1983 a Madrid, non ebbero alcun effetto.
Occorre attendere la politica di Gorbaciov nella seconda metà degli anni ’80, perché venisse ridato slancio alla Conferenza.
Nella terza riunione di Vienna (1986-1989) si fecero importanti progressi sia nell’ambito della dimensione umana che nelle misure miranti a rafforzare la fiducia e la sicurezza, grazie all’avvio di iniziative verso il disarmo convenzionale.
La “Carta di Parigi per una nuova Europa”, firmata nel novembre del 1990, segna un punto fondamentale per il superamento della crisi est –ovest.
La Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione Europea (CSCE) istituisce due organi politici:
1) il Consiglio affari esteri, che si riunisce almeno una volta l’anno;
2) il Comitato di alti funzionari, che si riunisce più volte l’anno.
Vengono costituite, inoltre, tre istituzioni permanenti:
1) un Segretariato a Praga;
2) un Ufficio per le Istituzioni Democratiche e i Diritti dell’Uomo a Varsavia;
3) un Centro Prevenzione Conflitti a Vienna.
Le tappe seguenti segnano, nel 1992 a Helsinki, l’ampliamento delle capacità operative sullo sfondo della crisi, soprattutto nella ex Jugoslavia e nel Caucaso istituendo:
– la diplomazia preventiva;
– il commissario per le minoranze nazionali;
– un Foro a Vienna per i negoziati sul controllo degli armamenti.
Fu sancita, inoltre, la possibilità di intraprendere operazioni per il mantenimento della pace.
Nel 1994 a Budapest, l’organizzazione cambia nome, e da Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa diventa Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa.
A Lisbona nel 1996, avviene l’approvazione di un modello di sicurezza globale per l’Europa per il XXI secolo.

2. EVOLUZIONE POST-GUERRA FREDDA DELLA NATO E CONSEGUENZE POLITICO-MILITARI

LA FINE DELLA GUERRA FREDDA: FINE DELLA NATO? AU CONTRAIRE. ALLARGAMENTO, NUOVE MISSION E CRITICITA’ CONSEGUENTI

La caduta del muro di Berlino, che per 30 anni ha rappresentato il simbolo della guerra fredda e l’irreversibile crisi del Patto di Varsavia sciolto a Bucarest nel febbraio del 1991, aprì un ampio dibattito sulla sorte della NATO.
Si crearono due schieramenti contrapposti:
– uno atlantista con Gran Bretagna e Stati Uniti, a cui si associarono Canada, Portogallo,  Norvegia, Danimarca e Olanda;
– l’altro europeista, con Francia in prima fila e Germania, Italia, Belgio e Spagna.
I primi, gli atlantisti, ritenevano che la NATO andasse rifondata e che avrebbe dovuto mantenere i connotati di difesa europea.
I secondi, invece, volevano dare vita a una struttura autonoma all’Europa occidentale, quello che era fallito con la Comunità Europea di Difesa e con la Comunità di Politica Europea.
I Capi di Stato e di Governo, nella riunione di Londra del 1990, trovarono una soluzione riformista della NATO, adattando la struttura alle funzioni e ai cambiamenti che si stavano verificando.
Fu presa la storica decisione – premessa di quanto viviamo oggi –  di aprire la NATO ai Paesi dell’est, di “porgere la mano d’amicizia” – fu detto – “al vecchio nemico”. Discutibilissima (e infatti discussa) scelta che è la prima responsabile della “sindrome da accerchiamento” che rende la Russia particolarmente astiosa e sospettosa nei confronti di NATO e forze occidentali.
Il Consiglio Atlantico, essendo cambiata completamente la situazione di riferimento, costituì un Comitato ad hoc per la definizione del nuovo concetto strategico della NATO.
La Francia (che era fuori dall’alleanza atlantica), inizialmente recalcitrante a far partecipare i propri rappresentanti al lavoro del Comitato, decise finalmente, nel febbraio del 1991, di prendervi parte conferendo alle sue attività un nuovo più significativo valore.
A Copenhagen, nel giugno del 1991, i Ministri degli esteri dei paesi NATO approvarono il nuovo concetto strategico e a Roma, nel novembre del 1991, ci fu il vertice NATO che seguì il cambiamento epocale dell’alleanza.
Con il nuovo concetto strategico si fissavano le nuove linee guida per la difesa e l’approccio generale alla sicurezza:
– si fissò la ristrutturazione e la riduzione della componente militare, in accordo con la mutata minaccia (non più Patto di Varsavia), individuata in una più variegata e sottile minaccia rispetto al passato e rappresentata prevalentemente dall’instabilità politico-istituzionale dei paesi dell’Europa centro-orientale;
– si determinò un rafforzamento della forza convenzionale, sempre meno nucleare si diceva, con capacità di intervento rapido per un’efficace gestione delle crisi a carattere locale.
La NATO, nel nuovo contesto, assumeva anche un ruolo inedito, quello politico di prevenzione dei conflitti. Infatti, con la dichiarazione di Roma sulla pace e sulla cooperazione, si istituzionalizzarono i nuovi rapporti di cooperazione con i paesi dell’ex Patto di Varsavia. Fu così creato il Consiglio di Cooperazione dell’Alleanza (NACC) cui presto aderirono tutti i paesi dell’ex blocco comunista, comprese le repubbliche nate dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Si diede vita, così, ad un Foro per la cooperazione e la consultazione sulle problematiche politiche e militari, tra le quali: il trattato sulla non proliferazione nucleare e quello sulla riduzione delle armi strategiche.
Di non secondaria importanza fu inoltre l’impulso dato alla negoziazione del trattato CFE sulla riduzione delle forze convenzionali in Europa e al processo di ridefinizione del ruolo del CSCE culminato nella Conferenza di Helsinki del 1992.
La NATO apre così una corsia preferenziale di collaborazione con la Conferenza per la sicurezza e cooperazione europea, evidenziando in essa le aree dove potevano meglio essere colte le opportunità per la risoluzione di alcune problematiche proprie dello spirito e specificità degli stati che diedero origine alla Conferenza, e che ricordiamo sono neutrali e non allineati.
E proprio a conclusione della Conferenza di Helsinki il 9 luglio 1992 poté essere approvata una dichiarazione intitolata “Le sfide del cambiamento”, con la quale si delineava il rafforzamento dell’istituzione CSCE attraverso la creazione di un Alto Commissario per le minoranze e lo sviluppo di un meccanismo per la prevenzione dei conflitti e la gestione delle crisi.
La NATO, anche a seguito della stretta collaborazione con la CSCE, ha potuto  accrescere il proprio accreditamento presso l’ONU come organismo più idoneo a collaborare  secondo le disposizioni della Carta Costituzionale.
Questo significava che, su mandato ONU, la NATO poteva operare al di fuori delle aree geografiche dei paesi membri (Art. 53 della Carta delle Nazioni Unite).
La conferma politica dell’alleanza fu sancita a Bruxelles nel dicembre del 1992 con la dichiarazione di disponibilità a operare fuori dai propri confini del Trattato NATO. Iniziò, così, una stretta collaborazione NATO-ONU.
Il banco di prova si ebbe nella guerra divampata nella ex Jugoslavia, nel corso della quale, sulla base di una serie di successive risoluzioni del Consiglio di Sicurezza ONU, la NATO fu chiamata a supportare l’applicazione dell’embargo sulla Jugoslavia nell’Adriatico, a monitorare la no-fly zone sulla Bosnia, a fornire supporto aereo alle truppe di peace-keeping, ecc.
L’Alleanza si presentò quindi come una struttura sotto egida ONU capace di operare nella sfera del soccorso umanitario, del peace-keeping, del peace-enforcement e quindi farsi garante della sicurezza e stabilità in diverse aree regionali.
L’Alleanza nel 1994, nel summit di Bruxelles, lanciò a questo proposito due iniziative:
1. la creazione di nuovi reparti operativi in grado di operare su base multifunzionale e multinazionale (il concetto di “combined and joint task force”) in un quadro di collaborazione con le truppe non NATO, facenti parte tanto dell’UE quanto dei nuovi stati partners dell’alleanza;
2. il partenariato per la pace (PfP), un organismo di cooperazione tra NATO e membri del NACC e del CSCE.
Gli obiettivi dichiarati del progetto erano:
– sviluppare un rapporto di cooperazione militare mediante programmazione, addestramento ed esercitazioni bilaterali, di gruppo e collettive, al fine di acquisire la capacità per svolgere missioni in comune di peace-keeping, ricerca e salvataggio e interventi umanitari;
– approntare nel lungo termine apparati militari idonei a operare in unione con quelli dei paesi membri dell’alleanza;
– promuovere il metodo democratico nella gestione del settore della difesa, la trasparenza dei bilanci e il controllo delle autorità civili sulle forze armate.
Quindi chiunque poteva rapportarsi con la NATO attraverso un Programma di Partenariato Individuale (IPP) avviando una negoziazione individuale con l’organizzazione: questa collaborazione non significava, però, l’estensione delle garanzie NATO di difesa collettiva, ma un impegno a consultarsi nel caso in cui lo stato del PfP percepisse diretta minaccia alla propria integrità territoriale indipendenza politica o di sicurezza.
L’azione PfP, inizialmente rivolta all’oriente, venne presto allargata dalla NATO all’area del Mediterraneo, sulla base della considerazione che la sicurezza e la stabilità europea fosse legata anche agli eventi dell’area del Mediterraneo.
Parte così il progetto del Dialogo Mediterraneo a cui aderiranno Egitto, Israele, Giordania, Mauritania, Marocco e Tunisia. L’Algeria vi aderì solo nel 2000.
La rifondazione della NATO fu preceduta da un dibattito politico molto acceso tra i Paesi membri.
Mancava, infatti, tra gli alleati, un accordo sugli Stati da coinvolgere nel processo di allargamento e sulle risposte da dare a quei paesi che già all’indomani dello scioglimento del Patto di Varsavia manifestavano di volerne far parte: Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Ungheria, Repubbliche Baltiche e Ucraina.  La Russia aveva, del resto, manifestato piena opposizione all’allargamento.
Ne scaturì una soluzione di compromesso; si sarebbe offerta a quei paesi concreta collaborazione, senza tuttavia annetterli a pieno titolo nell’alleanza. Si offriva, a quei paesi un tempo nemici, un’alternativa istituzionale per instaurare rapporti politico-militari.
Nel 1994 i Ministri degli esteri della NATO lanciarono uno “Studio sull’Allargamento della NATO” per determinare motivazioni e modalità per eventuali future annessioni. Nel 1995 il documento finale dello studio delineò i principi da accettare ed a cui uniformarsi per avere la possibilità di annessione, così sintetizzabili:
• promuovere scopi e principi della Carta dell’ONU;
• preservare capacità politiche e militari dell’alleanza, capacità di autodifesa  collettiva, adesione a operazioni di  peace-keeping;
• considerare la PfP non solo come aspirazione a entrare nell’alleanza ma anche come mezzo per rafforzare i rapporti con quei paesi che non ne potevano essere annessi;
• assecondare l’Unione Europea nella diffusione della stabilità  politica e creare nuove forme di democrazia;
• promuovere la diffusione delle libere istituzioni.
Fu così svolto, per due anni, un lungo lavoro con i 12 paesi interessati all’ingresso nell’alleanza, quali Albania, Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, ex Repubblica Jugoslava di Macedonia e Ungheria.
Nel vertice 1997 a Madrid furono invitati Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia ad aprire i negoziati per l’adesione alla NATO. Nel Missouri, nel 1999, si svolse la cerimonia di annessione di questi paesi.
Il 1997 segna però anche un’altra data storica, quella della consapevolezza che il processo avviato non poteva non considerare l’avversario storico della NATO, cioè la Russia. Il coinvolgimento della potenza sovietica era fondamentale perché la Russia guardava a dir poco con sospetto alle annessioni di quegli stati una volta sotto la sua influenza.
A maggio del 1997 viene firmato a Parigi un accordo, non vincolante tra le parti, di consultazione permanente NATO-Russia e si consolidano relazioni di stretta cooperazione.
Ci furono una serie di azioni di supporto parallele, quali il superamento del NACC e la nascita del Consiglio per il Partenariato Euro-Atlantico (EAPC), che doveva rafforzare la componente politica nelle fasi decisionali delle iniziative che riguardavano da vicino gli stati membri.
L’organismo, di fatto, ampliava anche l’area della consultazione della cooperazione ad altre problematiche: alla lotta al terrorismo internazionale, al controllo degli armamenti, alle attività di peace-keeping, alla pianificazione delle emergenze civili, alla cooperazione ecologica e scientifica.
La storia della cosiddetta “nuova NATO”, come tutti gli osservatori la definiscono, viene segnata da una data: il 1998-1999, quando, senza esplicito mandato dell’ONU, e fuori dalla sua area di competenza, vale a dire in un paese né membro né parte dell’alleanza, si pone in essere un pesante intervento militare sulla Repubblica Federale Jugoslava.
Sono note le polemiche e le perplessità in termini di diritto internazionale.
La NATO giustificò l’intervento sulla base di precedenti risoluzioni dell’ONU, che raccomandavano al Governo jugoslavo misure pacifiche di risoluzione della crisi al proprio interno, le quali, con il loro deteriorarsi, rischiavano  di minacciare la pace e la sicurezza di tutta la regione europea.
In particolare, fu una risoluzione dell’ONU che richiamava la Repubblica Federale Jugoslava ad attenersi agli accordi con l’OSCE e la NATO riguardo al monitoraggio del Kosovo, ad essere assunta dalla NATO come giustificazione a supporto dell’intervento, in quanto legittimava il ruolo della NATO nella risoluzione della crisi.
La forzatura da parte della NATO si rese necessaria in quanto l’ONU era bloccato con il voto di veto di Russia e Cina.
Si fa strada l’idea che l’uso della forza – ai danni dell’integrità territoriale o dell’indipendenza politica di altri Stati che pongono in essere comportamenti incompatibili con la carta dell’ONU – è praticabile al fine del  ripristino della compatibilità con la Carta dell’ONU. L’uso della forza viene quindi giustificato in caso di necessità di rimuovere una minaccia alla pace e per garantire il rispetto dei diritti umani.
L’azione fu infatti definita umanitaria e di difesa preventiva.
Nel 1999 a Washington venne approvato il nuovo concetto strategico della NATO, che va a legittimare definitivamente quanto accaduto in Jugoslavia.
Il nuovo concetto strategico sancisce che la sicurezza e stabilità dei Paesi dell’Alleanza potevano essere compromessi da conflitti religiosi e dalla violazione dei diritti umani e quindi, pur riaffermando la centralità della difesa collettiva degli stati membri, il nuovo concetto strategico prevedeva una difesa attiva da esercitarsi anche fuori area, ogni qualvolta tali interventi si rendessero necessari per una più ampia sicurezza dei membri e dei partners. Furono, di fatto, definite le attribuzioni e le aree di intervento.
Al summit di Washington segue ancora un ulteriore salto di qualità, quando furono predisposti i meccanismi necessari a favorire in tempi rapidi la partecipazione di nuovi Stati attraverso la “Politica della porta aperta”.
Viene infatti approvato il programma MAP (Membership Action Plan) che fornisce assistenza sulla base di predisposizioni all’ingresso della NATO in 5 aree: quella politico-economica, quella militare e di difesa, quella delle risorse e quella legale e di sicurezza.
L’11 settembre 2001 ha fatto la sua parte. Infatti, con il summit di Pratica di Mare del maggio 2002, si rafforza il rapporto NATO-Russia, con Mosca che viene a far parte del Consiglio Atlantico, pur rimanendo formalmente non integrata nell’alleanza. Inoltre, 7 paesi – Slovacchia, Romania, Bulgaria, Slovenia, Lettonia, Lituania ed Estonia – furono ufficialmente invitati ad aprire negoziati per l’adesione alla NATO.
La NATO – avendo “imbarcato” la Russia, anche se solo in termini di rapporti differenziati – si presenta, quindi, come interlocutore di spessore e capacità operativa di supporto all’ONU, potendo garantire, oltre a sicurezza e stabilità, i suoi valori fondamentali: libertà, democrazia, stato di diritto e rispetto dei diritti umani, dal Nord America all’Europa, all’Asia centrale, al Medio oriente e all’Africa settentrionale.

LA NATO E L’EUROPA OCCIDENTALE

Per comprendere meglio la NATO di oggi occorre soffermarci anche sulla politica europea in termini di sicurezza e difesa.
Dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa (CED) e della Comunità Politica Europea (CEP), solo nel1970 gli Stati membri dell’Unione Europea occidentale avviarono, informalmente, una cooperazione politica europea (la CPE), che fu istituzionalizzata  ben più tardi (nel 1987), e che si limitava a prevedere meccanismi di consultazione sulle questioni di politica estera e di interesse generale.
Agli inizi degli anni ‘90 sotto la spinta del cambiamento geopolitico a opera del crollo del muro di Berlino, l’Unione Europea adotta i compiti di Petersberg (1992), concepiti nell’ottica di una cooperazione in ambito europeo per far fronte alle crisi emergenti nei Paesi dell’est.
I compiti erano pressoché circoscritti a missioni umanitarie e di protezione civile, peace-keeping, missioni militare per la gestione delle crisi e la risoluzione dei conflitti.
Gli stati membri dell’Unione Europea, nel 1993, decisero di fissare una politica comune estera nel quadro del Trattato di Maastricht, modificato successivamente ad Amsterdam e a Nizza.
La Politica Europea di Sicurezza e Difesa (PESD) diventa parte integrante della Politica Europea di Sicurezza Comune (PESC),  finalizzata alla gestione delle crisi e alla prevenzione dei conflitti, avvalendosi di strumenti sia militari che civili, ponendo, in tal modo, le basi per un’autonoma identità di difesa europea.
Con la PESD, e quindi la PESC, si vuole dare un impulso all’integrazione nel settore difesa in modo da garantire alla UE un adeguato ruolo  politico sulla scena internazionale.
L’UE, attraverso la PESD, vuole dunque affermarsi come vero e proprio attore sulla scena internazionale, attraverso azioni destinate a promuovere la pace, la sicurezza e i diritti dell’uomo, con la peculiarità di associare le dimensioni civili e militari, per adeguare al meglio le risposte alle singole situazioni di crisi.
Le azioni civili vengono evidenziate in quattro ambiti: polizia, rafforzamento dello stato di diritto, consolidamento delle amministrazioni civili, protezione civile.
Il Consiglio, con il supporto delle industrie della difesa, ha istituito nel 1994 l’EDA (Ag. Eur. Dif.) per la razionalizzazione della domanda-offerta di equipaggiamenti, la ricerca nel campo armamenti e per contribuire soprattutto a rafforzare la base tecnologica e industriale di difesa in ambito UE.
Nel 94, inoltre, c’è la costituzione dei Battlegroups e il rafforzamento delle capacità’ operative dei comandi EUROFOR ed EUROCORPO.
Più in dettaglio:
– l’EUROFOR, costituito nel 1995, è una forza terrestre multinazionale di intervento rapido (Francia, Italia, Portogallo, Spagna), è di stanza a Firenze ed è dotato di forze leggere facilmente schierabili, che possono esercitare “le azioni di Petesberg”. La decisione di impiego è di competenza di uno dei quattro Stati membri ed è sotto il controllo del CIMIN (Comitato Interministeriale ad alto livello), di cui fanno parte anche i CSM delle FA e dei Direttori Politici degli Affari Esteri dei 4 Paesi membri: è già intervenuto in Albania e Bosnia;
– l’ EUROCORPO, istituito nel 92 su iniziativa del Governo Francese e del Governo Tedesco, ha sede a Strasburgo. Ad esso aderiscono il Belgio nel 93, Spagna nel 94, il Lussemburgo nel 96 e, successivamente con uno speciale statuto di Stati contributori, la Polonia, l’Austria, la Grecia, la Turchia: dovrebbero aderire ancora Stati Uniti, Italia e Romania. È di fatto un Corpo d’Armata  su due Brigate. Dipende dal comitato comune costituito dai CSM Esercito e dai ministri degli esteri. L’impiego può essere richiesto da uno dei Stati membri in modo consensuale: è intervenuto in Bosnia Erzegovina, in Kosovo  e in Afghanistan;
– BATTLEGROUPS, sono pacchetti di forze, di circa 1550 elementi, specifici per una missione e in grado di condurre azioni da 30 a 120 giorni: l’UE dispone di due B.GPS in permanenza  forniti a rotazione da tutti gli Stati membri. In 5 anni l’UE ha condotto autonomamente  5 operazioni militari e 15 civili (tra le quali in Macedonia, nel Congo, nel Ciad, in Bosnia Erzegovina), ed ha impiegato forze di polizia e giuristi, con particolare riferimento in Iraq, in Palestina ed in Afghanistan ed in altre parti del mondo.
Nel Ciad ci sono 3700 militari che dovrebbero preparare una operazione di polizia sotto egida ONU e nel contempo fornire una cornice di sicurezza per operazioni umanitarie.

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